“‘Le Illusioni perdute’ incarna perfettamente, a livello di microcosmo romanzesco, la portata ampia dell’intero progetto letterario balzacchiano”: alla luce del recente successo del film diretto da Xavier Giannoli, e della più generale riscoperta dell’opera di Balzac, su ilLibraio.it la riflessione dello scrittore Andrea Inglese

In Francia ha avuto un notevole successo la trasposizione cinematografica di un classico della narrativa ottocentesca, Illusioni perdute di Balzac.

Al riconoscimento del pubblico si è aggiunto quello della critica, che quest’anno ha premiato la pellicola con ben sette César, tra cui quello di miglior film. Realizzato nel 2021 da Xavier Giannoli, Illusioni perdute si avvale di una compagnia solida di attori (Gérard Depardieu, Jeanne Balibar, Vincent Lacoste, ecc.) e di un efficace lavoro di ricostituzione degli ambienti dell’epoca. Ma la sua forza, e forse anche il suo limite, è l’invito a riattualizzare Balzac, e in particolar modo la critica impietosa del mondo del giornalismo che quest’ultimo realizza nel suo capolavoro pubblicato tra il 1837 e il 1844, ma ambientato nel 1821, al momento della Restaurazione e dei feroci conflitti tra “liberali” e “monarchici”.

Giannoli, che è stato anche giornalista prima di abbracciare la carriera cinematografica, sembra voler misurare la crisi del mondo dell’informazione attuale attraverso l’analisi che, duecento anni fa, Balzac ha fatto del giornalismo nascente, nel momento di transizione tra i vecchi valori aristocratici e quelli post-rivoluzionari, basati sulla potenza del denaro e sull’audacia imprenditoriale borghese. Se ritorno a Balzac dev’essere, vale però la pena di allargare la visuale offerta da Giannoli, e leggere Illusioni perdute per sperimentare nuovamente la forza del suo dispositivo romanzesco e la sua capacità di costruire il realismo, categoria estetica che gli ha garantito nel tempo così ammirata centralità nella storia della letteratura moderna, ma anche, di tanto in tanto, scomuniche definitive.

Se Balzac è celebrato nel primo Novecento come grande modello del romanzo realista da un critico marxista come Lukács, è nel contempo aborrito da uno scrittore d’avanguardia come Samuel Beckett che proprio negli anni Trenta scrive: “Leggere Balzac significa ricevere l’impressione di un mondo cloroformizzato. Egli è padrone assoluto del suo materiale, che può forgiare a proprio piacimento, egli può prevederne e calcolarne la minima vicissitudine” (dal romanzo apparso postumo Dream of Fair to Middling Women, scritto nel 1932). La condanna di Beckett sarà ripresa poi, anche se con toni variabili, da quegli autori che, nel dopoguerra, saranno a lui associati nell’impresa di reinventare il romanzo proprio in terra francese, e alludo ai vari Pinget, Butor, Robbe-Grillet, Simon, Sarraute, che faranno tutti, a loro modo, i conti con l’eredità balzachiana.

Rimane, però, un fatto incontestabile: Balzac è l’inventore di un organismo complesso, multiplo, sfaccettato che permette, attraverso un sistema di personaggi, di esplorare e, al tempo stesso, fissare su carta gli ambienti e i gerghi, i caratteri umani e le strategie d’azione, gli oggetti e i paesaggi del momento storico di cui è il testimone contemporaneo. La restituzione di questa immane ricerca, attraverso l’inanellamento dei romanzi della Commedia umana, costituisce quella materia densa di migliaia di pagine che ancora oggi chiamiamo “realismo”.

Le Illusioni perdute incarna perfettamente, a livello di microcosmo romanzesco, la portata ampia dell’intero progetto letterario balzacchiano. Innanzitutto, si tratta di tre romanzi riuniti in uno, e di due mondi che si illuminano a vicenda: quello da cui proviene l’eroe – la provincia – e quello in cui giunge per realizzare se stesso – la metropoli. Questo spostamento geografico e culturale si accompagna a un’evoluzione temporale: la formazione del giovane uomo avviene nel corso del suo radicamento parigino. A queste due dimensioni, il romanziere ne aggiunge un’ulteriore e fondamentale: la realizzazione di sé non è un percorso lineare, ma contraddittorio, in quanto oscilla tra due universi valoriali antitetici: quello della poesia (e della gloria letteraria) da un lato e quello del giornalismo (e del successo materiale) dall’altro.

Ripreso in mano oggi, questo “classico” rivela in realtà una fisionomia mostruosa: certo, Balzac dice tutto e agisce come un demiurgo che sovrasta la propria opera e i personaggi che la abitano, ma è questo lavoro che permette ai fenomeni a lui contemporanei di consolidarsi e di mostrare, dietro le apparenze di un mondo in armonia con se stesso, una stratificazione di piani e di temporalità in conflitto tra loro. Un’epoca non appartiene mai interamente alle proprie parole d’ordine, e certamente la Restaurazione non realizza il ritorno delle antiche virtù aristocratiche, di cui si fa vanto e che sembra imporre in modo irrevocabile all’intera società francese. Per costruire però questo sguardo equanime e questo ascolto onnivoro, che non tralasciano nulla di quanto è visibile e ascoltabile nel tempo presente, Balzac deve diventare l’etnologo della modernità, ossia guardare la società parigina come la guarderebbe un extraterrestre, un perfetto estraneo, ossia quel Lucien Chardon, giovane inesperto e provinciale, che viene in città per farsi un nome, senz’altra risorsa che non sia il proprio talento.

Perché la realtà di un’epoca e di una società emergano in tutta la loro inospitale e feroce durezza, bisogna che qualcuno vi si scontri senza preavviso e difese. Questa è la chiave del “realismo” romanzesco: ossia la messa in scena dell’impatto doloroso che la volontà e i desideri soggettivi subiscono contro le forze collettive e le leggi sociali. Ogni persona, allora, finisce per essere costituita non solo da quei tratti che ne fanno un individuo irripetibile, ma anche dalla somma delle impotenze (rimpianti e fallimenti), che le relazioni con gli altri attori sociali hanno fissato nel corso della sua maturazione. Che cos’è, in fondo, il “tipo”, di cui ha parlato tanta teoria della letteratura (si veda ancora Lukács)? Ciò che dell’insondabile individualità di ogni essere umano emerge e viene cristallizzato, nel bene e nel male, nella dinamica difficilmente controllabile dei rapporti sociali.

Il romanzo novecentesco, da Pirandello in poi, ha spesso preso le difese di un individuo che, in modi diversi, vorrebbe sottrarsi a questa tirannia dell’impronta sociale. In Balzac, però, non c’è un altrove della coscienza dell’eroe, una zona franca al riparo dalle brutture del mondo. Ognuno è immancabilmente trascinato dal ritmo frenetico della meccanica sociale, che vede la compresenza di elementi conflittuali: il privilegio di nascita e il talento individuale, la difesa di valori estetici e la sete di profitto, i grandi ideali e gli intrighi spietati. Il campo dove osservare nel modo migliore l’esito di questo gioco di forze è ovviamente il destino sociale del protagonista delle Illusioni perdute, quel Lucien che sbarca a Parigi con la testa piena di sogni galanti e di fama letteraria, forte della sua bellezza fisica e di un manoscritto di poesie.

Il genio romanzesco di Balzac è stato quello di scegliere non solo un provinciale per guardare Parigi, ma un aspirante poeta, per svelare la mercificazione diffusa che ha avvelenato tanto il mondo delle lettere che quello contiguo del giornalismo culturale e politico. Tra le illusioni che Lucien perde nel corso della sua maturazione vi è quella di considerare il talento come una forza in grado di creare di per sé riconoscimento pubblico e quindi anche vantaggi materiali. Non c’è compromesso né equilibrio possibile tra il perseguimento di un’ideale letterario (mettere il talento al servizio della poesia) e di un’ideale di successo mondano e materiale (mettere il talento al servizio del giornalismo). In questo si percepisce il carattere “ferreo” delle leggi sociali.

La buona volontà o le forze sane dell’individuo non contano: il poeta che abbraccia la carriera giornalistica è perduto alla poesia, in quanto il giornalismo – per come funziona nel 1820 a Parigi – costituisce l’antitesi del rigore e dell’autonomia spirituale che ogni opera letteraria necessitano. Balzac lo annuncia chiaramente nella premessa scritta nel 1839: “Il pubblico ignora quanti mali opprimono la letteratura nella sua trasformazione commerciale”. La società che ha voluto ristabilire i vecchi privilegi dell’Ancien Régime è in realtà corrosa alle fondamenta dai nuovi privilegi del freddo calcolo e della corsa al profitto economico. Nel corso di questa trasformazione epocale perfino i valori apparentemente più spirituali ed estranei alla nuova logica capitalistica si trovano corrotti e da questa “malattia” non vi è facile scampo. Innumerevoli giovani talentuosi come Lucien vi soccombono.

Il ritorno a Balzac può essere allora un rinnovato interesse (e una rinnovata fiducia) in quella capacità del romanzo di cogliere, a partire da un’esplorazione locale – la vicenda di un gruppo di personaggi interni a un dato ambiente – quei meccanismi più generali che costringono l’apparente sovranità delle scelte individuali e inoculano una poco attraente, ma indubitabile uniformità nelle condotte collettive. E duecento anni dopo Balzac, la realtà dei personaggi emerge ancora in questo scontro tra i sogni di autodeterminazione e i limiti che il mondo sociale, al di là di tutte le sue innumerevoli promesse, impone agli individui, quali che siano la loro origine e le loro aspirazioni.

L’AUTORE – Andrea Inglese vive nei pressi di Parigi e scrive in versi e in prosa. Tra le sue pubblicazioni, il romanzo Parigi è un desiderio (Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017), il libro di prose Ollivud (Prufrock spa, 2018) e la raccolta di saggi La civiltà idiota (Valigie Rosse, 2018). Il suo ultimo romanzo, sempre edito da Ponte alle Grazie, è La vita adulta, presentato al premio Strega 2022; inoltre il libro è finalista al Premio Bergamo.
Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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