Montaigne, Flaubert, Woolf, Fitzgerald, Capote, Kafka, Bernhard solo alcuni degli autori citati da Alessandro Piperno nel suo nuovo libro, “Ogni maledetta mattina – Cinque lezioni sul vizio di scrivere”. Per l’autore premio Strega, scrivere non è un diritto, e nemmeno un dovere, bensì una necessità… – Su ilLibraio.it un capitolo, dal titolo “La torre d’avorio: quando il piacere si fa tormento”
Forse non esiste scrittore che prima o dopo non sia tentato di chiedersi perché scrive. Del resto, non è meno probabile che alla fine non saprebbe comunque cosa rispondersi. “Si scrive perché si sente il dovere di farlo” diceva Philip Larkin, con un’ironia che non trascura l’aspetto etico della questione.
A dispetto della più immediata delle motivazioni, il piacere che si può trarre dal fare quello che si fa, è indubbio che la scrittura per taluni somigli più a un vizio che non a un passatempo. E come ogni vizio che si rispetti, è molto difficile, se non impossibile, farne a meno.
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In fondo, anche quando si consacra a secondi fini che apparentemente le sono estranei, la scrittura continua ad attingere a una smania talmente irrefrenabile, e priva di scopi, da bastare a sé stessa. Una smania che richiede, certo, costanza e disciplina per essere amministrata al meglio. Perché si riveli feconda, occorre una fedeltà alla causa quasi monacale.
In Ogni maledetta mattina – Cinque lezioni sul vizio di scrivere (Mondadori) Alessandro Piperno s’interroga sul senso del proprio mestiere, su quella specie di richiamo al tavolo da lavoro, non meno potente del richiamo della foresta, che costringe ogni santo giorno chi scrive a passare ore e ore chino su una tastiera nel tentativo di portare a casa il bottino quotidiano.
In cerca di risposte, o forse soltanto di itinerari artistici esemplari da sviscerare, Piperno si affida all’esperienza maturata da alcuni grandi scrittori del passato, immaginando per ciascuno di essi una motivazione preliminare e imprescindibile all’atto di scrivere.
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Montaigne, Flaubert, Woolf, Fitzgerald, Capote, Kafka, Bernhard alcuni degli autori protagonisti
Ambizione. Odio, Responsabilità. Piacere. Conoscenza. Cinque buone ragioni per mettersi al lavoro, a cui i vari Montaigne, Flaubert, Woolf, Fitzgerald, Capote, Kafka, Bernhard – solo alcuni degli autori chiamati a testimoniare in questo libro – aderirono a modo loro per realizzare sé stessi e il proprio mondo poetico. Ma che lo si faccia per vanità, per ambizione, alla ricerca di uno status, per dare forma al proprio odio verso qualcuno o qualcosa, per tradurre attraverso un gesto responsabile gli appelli lanciati dal mondo, per inseguire il proprio piacere o perché animati da una genuina sete di conoscenza, ciascuno degli scrittori presi in considerazione ci ricorda che scrivere non è un diritto, e nemmeno un dovere, bensì una necessità.
Inervistato da La Stampa, Piperno a proposito del nuovo libro ha spiegato: “Racconto cinque moventi per scrivere alla mattina e non alla notte come i veri grandi: ambizione (o vanità) come nei diari di Woolf e Cheever in cui si lamentano di non ricevere lodi sufficienti; odio come Flaubert e Céline che scrivevano sdegnati, e anche a me è capitato; responsabilità come Tolstoj o Sartre, che erano ‘engagé’, o testimoni come Primo Levi; piacere come Austen, Dickens e Stendhal che intrattenevano sé stessi e creavano forme eleganti, la categoria con cui più mi identifico. E poi c’è un piacere, e qui c’è sempre Flaubert di mezzo, che è talmente ossessivo da diventare tormento. L’ultimo movente è la conoscenza e riguarda i veri grandi come Dante, Shakespeare, Proust e Kafka, che danno la sensazione di scrivere per cercare qualcosa, che non trovano mai, ma la loro grandezza sta nel porre lo stesso certe domande. Ovviamente tutti questi moventi spesso coesistono e la mia è solo una tassonomia arbitraria“.
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Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
La torre d’avorio: quando il piacere si fa tormento
“Se leggo con piacere questa frase, questa storia o questa parola, è perché sono state scritte nel piacere (questo piacere non è in contraddizione con i lamenti dello scrittore).”
Lo scrive Roland Barthes nel suo celebre Il piacere del testo. Come spesso gli capita, Barthes, nel suo aristocratico snobismo, affida alle parentesi le gemme più preziose. È ciò che avviene anche nella citazione in questione. In essa Barthes rivela come il piacere di scrivere non possa essere mai dissociato dal tormento. Lo stile di vita cui si condanna lo scrittore- anacoreta alla lunga si rivela come la rosa del famoso proverbio: irta di spine. La torre d’avorio auspicata da Nabokov, provvista di ogni comfort, ci mette niente a trasformarsi nella stanza delle torture.
Per decenni, prima dell’avvento di Proust e della sua lugubre camera foderata di sughero, lo spazio di riferimento per tutti i fautori della torre d’avorio è stato un luogo decisamente più ospitale della tana proustiana: la dimora dei Flaubert a Croisset, in Normandia. Purtroppo non esiste più, demolita da qualche ignobile speculazione edilizia. Ma stando ad alcune riproduzioni e alle testimonianze degli amici che ebbero l’onore di frequentarla (Maupassant, Sand, i Goncourt) si può capire perché Flaubert l’amasse tanto e perché stentasse sempre ad abbandonarla. Era il domicilio perfetto per scrivere in santa pace.
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Affacciato sul fiume, a pochi chilometri dall’oceano, ingentilito da un profumato boschetto di tigli, il palazzo fu acquistato dal dottor Flaubert, il padre di Gustave, nella primavera del 1844. All’epoca Gustave aveva appena ventidue anni e, pur non avendo ufficialmente comunicato alla famiglia le sue intenzioni, aveva già compiuto la sua scelta di vita.
Deciso a non seguire le orme paterne e a non intraprendere alcuna professione borghese, sarebbe diventato uno scrittore.
E mica uno scrittore qualunque, ma lo scrittore per antonomasia, quello per cui conta solo scrivere.
“Non si arriva allo stile se non con un lavoro atroce, con un’ostinazione fanatica e devota.” Così avrebbe scritto qualche anno dopo a Louise Colet. E ancora: “Mi parli di lavoro, sì, lavora, ama l’arte. Di tutte le menzogne è ancora la meno menzognera. Prova ad amarla di un amore esclusivo, ardente, devoto. Non ti verrà meno. Solo l’idea è eterna e necessaria”.
Flaubert non fece mai mistero delle difficoltà del suo apprendistato. A dispetto di parecchi colleghi, trovare una voce che lo convincesse fu per lui una fatica immane. Grazie al cielo, la cospicua eredità paterna e la casa di Croisset gli offrirono l’opportunità per dedicarsi anima e corpo alla sua vocazione senza dover fronteggiare le volgari seccature che affliggono la vita degli scrittori indigenti.
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Per decenni le imbarcazioni che, partite da Parigi, solcavano le acque della Senna verso il mare usarono casa Flaubert come un faro. Anche a notte fonda, infatti, la stanza dello scrittore era illuminata a giorno dalle candele. Purtroppo neppure tante ore a disposizione riuscirono a placarlo. Molto spesso la sua esasperazione era tale da costringerlo a lascia- re la scrivania e sdraiarsi sul divano preda di cefalee invalidanti.
Insomma, benché la sua torre d’avorio fosse dotata di tutte le necessarie comodità, Flaubert non seppe mai godere del proprio mestiere come forse avrebbe potuto e dovuto. A colpirci fin quasi alla commozione è la poca fiducia che riponeva in se stesso. Per assurdo che possa apparire, non si liberò mai dal sospetto che il suo genio non fosse all’altezza delle ambizioni. A schiacciarlo erano soprattutto i modelli che gli si paravano davanti ogni volta che intingeva la penna nel calamaio. Per quanto ce la mettesse tutta, il suo stile non avrebbe mai potuto raggiungere la schietta naturalezza di Montaigne, la nettezza di La Bruyère e neppure la raffinata eleganza di Chateaubriand. Per sopperire al deficit (tale lo considerava), c’era solo il lavoro. Un lavoro indefesso fatto di prove, studi, binari morti e sentieri abbandonati. Ecco perché possiamo dire che Flaubert è il santo patrono di tutti gli eremiti letterari. Non tanto perché sia il primo ad aver consacrato la propria intera esistenza al lavoro artistico (si pensi alla folla di grandi isolati prodotti dal Romanticismo tedesco, inglese ma anche italiano, francese e americano), quanto perché ci ha costruito sopra una filosofia pratica.
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Era ancora uno scrittore inedito, alle prese con la compilazione del suo capolavoro immortale, Madame Bovary, quando in una celebre lettera confidò all’amica del cuore: “Ho vissuto la mia vita in questa ostinazione da maniaco, escludendo le mie altre passioni che chiudevo dentro delle gabbie, e che andavo qualche volta a vedere solo per distrarmi. Oh! Se un giorno farò mai una grande opera, l’avrò di sicuro guadagnata”.
Se per Tanizaki, Nabokov e parecchi altri epigoni la scrittura sarebbe stata una fonte di conforto e godimento, per Flaubert fu sempre un cilicio, e quindi uno strumento di tortura che produce in chi ne fa uso sensazioni in bilico tra tormento e voluttà. Impossibile, a questo punto, non tornare a Truman Capote e a ciò che dice del suo apprendistato artistico:
Scrivevo storie di avventure, racconti gialli, scenette comiche. Episodi che mi erano stati narrati da ex schiavi e da reduci della Guerra Civile. Era molto divertente, all’inizio. Smise di esserlo quando scoprii la differenza tra scrivere bene e scrivere male, e poi feci una scoperta ancor più allarmante: la differenza tra un ottimo stile e la vera arte; è sottile ma feroce. E allora calò la frusta.
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Una confessione che contribuisce a ingrossare la lunga lista di flaubertiani più o meno consapevoli. Benché il tenore di vita di Capote, improntato a frivolezze e mondanità, confligga con l’austerità raccomandata dal grande romanziere normanno, il rapporto di Capote con la sua arte ripropone a grandi linee le ossessioni di Flaubert. Anche per Capote non c’è dea più capricciosa della “vera arte”: una musa esigente che prima di concedersi ti sottopone a tormenti inauditi.
Si può dire che Flaubert abbia fondato un vero e proprio culto, una religione la cui liturgia si esprime in un’inesausta ricerca della bellezza. Una ricerca che costringe chi la intraprende a una serie di ostacoli mortificanti.
Nelle sue amabili divagazioni sul niente e sul tutto, Borges ha avuto buon gioco nel paragonare Flaubert a Pindaro, il poeta-sacerdote. Il destino di Flaubert è talmente esemplare, afferma Borges, da conferirgli il crisma dell’antesignano e del vate. Borges vede in lui il primo scrittore che si sia interamente votato alla “creazione di un’opera puramente estetica in prosa”. Da qui la convinzione un po’ bislacca, mille volte rivendicata da Flaubert, che esiste un solo modo, non due, non tre, per esprimere un dato concetto o per evocareuna certa immagine. Il compito dell’artista è identificarlo a costo di mille colpi di frusta autoinflitti. La contraddizione incarnata da Flaubert è tutta qui: da un lato rifiuta la cosiddetta ispirazione romantica, a favore del duro lavoro, dall’altro si abbandona a una specie di misticismo artistico. Un’aporia che induce Borges a concludere:
Non è meno innegabile che pensare all’opera di Flaubert è pensare a Flaubert, all’ansioso e laborioso lavoratore dalle molte ricerche e dagli abbozzi inestricabili. Don Chisciotte e Sancio sono più reali del soldato spagnolo che li inventò, ma nessuna creatura di Flaubert è reale quanto Flaubert. Quelli che dicono che la sua opera capitale è la Correspondance possono arguire che in quei maschili volumi c’è il volto del suo destino.
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Per bizzarro che possa sembrarci questo discorso, Borges ha ragione. La smania di Flaubert di scomparire nella sua opera, che trae linfa dalla sua idea di ascetismo artistico, sembra non tenere conto del mito che proprio lui ha contribuito ad alimentare. Borges, nel suo gusto per i paradossi, arriva ad affermare che nessun eroe inventato da Flaubert – né Emma, né Félicité, né Frédéric – è degno del personaggio-Flaubert.
Il mito della “parola giusta” è talmente contagioso da aver forgiato intere generazioni di scrittori. Dubito che senza Flaubert il poeta russo Iosif Brodskij avrebbe potuto dire con altrettanta sicumera che “il fine dell’evoluzione – ci crediate o no – è la bellezza che sopravvive a tutto e genera la verità per il semplice fatto di essere una fusione di ciò che è mentale e di ciò che è sensuale. Come sempre avviene agli occhi di chi sta a guardare, non può essere totalmente incarnata se non nelle parole; è questa premessa di ogni poesia, che è inguaribilmente semantica così come è inguaribilmente eufonica”.
La “parola giusta” è la sola capace di esprimere tutto quel che c’è da sapere, e di farlo nel modo più elegante e melodioso possibile. Nella folta schiera di romanzieri borghesi del diciannovesimo secolo Flaubert si è distinto dagli altri proprio per la sua spinta a nevrotizzare la scrittura. La proverbiale lentezza con cui allestiva i suoi gioielli romanzeschi è figlia di questa malattia nervosa. La cura che metteva nei suoi fraseggi riproduce assai più i tormenti del giovane poeta in crisi che la fiducia in se stesso del narratore navigato.
Di fatto, niente gli è più estraneo della leggerezza di Stendhal e della mostruosa prolificità di Balzac. Non sorprende che Borges identifichi nell’epistolario flaubertiano la fonte di questo mito così duro a morire. E che Vargas Llosa, altro flaubertiano di lungo corso, gli dia manforte: “Credo che l’epistolario di Flaubert sia il migliore amico per una vocazione letteraria agli esordi, l’esempio più proficuo su cui un giovane scrittore possa contare nel destino che si è scelto”. E in effetti sono tanti gli scrittori che hanno tratto spunto da quelle pagine (scritte con una disinvoltura di cui nei romanzi era incapace) per dare spessore alla propria vocazione: da Kafka a Salinger, non c’è narratore ossessionato dal proprio lavoro che non abbia sentito risuonare in alcune lettere di Flaubert il nucleo della propria stessa ragione di vita. Citarne stralci è il genere di coazione cui è difficile resistere. Lo dico per mettere le mani avanti dato che è ciò che mi accingo a fare.
(continua in libreria…)
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