Proponiamo il racconto di Ilaria Gaspari dedicato a Circe – affascinante figura della mitologia greca che compare per la prima volta nell’Odissea -, parte del libro collettivo “Il mare di Circe” (che coinvolge numerose autrici e autori), e ispirato a San Felice Circeo – Il racconto e i particolari
Circe* di Ilaria Gaspari**
Era ancora un bambino, ma nell’ultimo anno era cresciuto di cinque centimetri, tre numeri di scarpe e un’ombra lieve sul labbro superiore. Qualche volta arrossiva e suo padre non se ne accorgeva, o forse sì ma era bravo a non farsi veder sorridere. Il bambino si sarebbe offeso: anche in suscettibilità era cresciuto, quell’anno.
Per tutto l’inverno si erano visti solo nei fine settimana, avevano mangiato la pizza o la carbonara (specialità del padre, proibitissima in casa dalla madre che aveva l’ossessione della salmonella e altri bacilli, ma l’accordo era di non dirle nulla e il bambino era felice di avere un segreto) come due vecchi amici in un solido silenzio affettuoso sul divano davanti a un film o a una partita della squadra di cui il padre era tifoso da sempre. Il bambino non gli disse mai che per lui non era più quella la squadra del cuore, che con i suoi amici lui tifava anzi per la storica rivale.
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Aveva cambiato squadra dopo che il padre era andato via di casa, ma quando erano insieme gli sembrava un tradimento trascurabile fargli credere che fosse tutto come prima. Sua madre lo sapeva ma il bambino era sicuro che non l’avrebbe detto al padre, nemmeno per ferirlo; d’altronde, agli occhi di lei non era una cosa importante. E poi, nessuno aveva intenzione di ferire il padre: si volevano ancora bene tutti e tre, anche se il bambino sapeva che i tempi in cui cenavano insieme sul balconcino e i genitori parlavano fra loro di cose poco importanti, e non solo di soldi e di turni e vacanze, e lui e suo padre tifavano per la stessa squadra, non sarebbero tornati più. Ma la nostalgia alla sua età era un sentimento prematuro, del tutto fuori luogo, e si era accontentato di non ripensare mai a quelle sere che del resto già sbiadivano in un mucchio di ricordi trascurabili.
Anche il padre era cambiato, in quell’inverno, il che poteva sembrare paradossale alla luce del fatto che la madre del bambino l’aveva accusato (e con una certa insistenza), nel periodo che aveva preceduto la separazione, proprio di non voler o non saper cambiare, crescere, evolvere, citando come esempi di evoluzione diversi loro amici e conoscenti che in seguito il padre avrebbe frequentato sempre meno, e che sarebbero invece rimasti in ottimi rapporti con lei: voi sì che siete evoluti, aveva borbottato il padre una volta, unica laconica risposta ai rimproveri di lei. Poi se n’era andato a vivere in quella che chiamava la sua voliera, un appartamentino da scapolo all’ultimo piano di un palazzo del centro, con una piccola terrazza affacciata sul fiume, e con la madre del bambino i rapporti si erano fatti più rilassati, quasi affettuosi. Nessuno lo rimproverava, nel suo bugigattolo, e forse per questo lui era infine riuscito a cambiare; anche se chi avesse assistito al suo mutamento difficilmente l’avrebbe associato a una crescita o a un’evoluzione.
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Aveva conosciuto una donna. Una donna che viveva in una casa sua, a due ore di strada dalla città; in una casa sul mare in cima al promontorio che molti secoli prima era stato il regno della maga. Il bambino non l’aveva mai incontrata, e anzi fino alla prima sera di vacanza aveva ignorato la sua esistenza. Nell’appartamentino del padre, dove lei si fermava a dormire – mai, però, nei fine settimana – gli oggetti che disseminava, distratti detriti del suo passaggio, uno spazzolino da denti, una camicia da notte di seta sottile, l’astuccio del fard, un rossetto, il padre li faceva sparire in un cassetto il sabato mattina, sottoponendo i quaranta metri quadri a un esame tanto scrupoloso quanto insolito rispetto alle sue ritrovate abitudini di scapolo approssimativo e disordinato.
Ma era una precauzione che prendeva volentieri, sia perché gli offriva il piacere di ritrovare le tracce di lei (cosa che lo metteva di buonumore poiché stava attraversando quella fase precoce dell’innamoramento in cui persino gli oggetti sembrano riverberare l’incanto della vita estranea con cui ci si bea di essere entrati in collisione); sia perché aveva imparato proprio malgrado, negli anni, che a essere prudenti non si sbaglia, e non aveva intenzione di allentare la cautela con cui proteggeva quella storia nuovissima dagli occhi del mondo. Finché si trattava di chiedere al bambino di tacere alla madre le uova nella carbonara, tutto sommato era tranquillo; ma affidare una confidenza così intima a un ragazzino ancora (almeno secondo la psicologa cui si erano rivolti) inquieto per la separazione, anche se non dava particolari segni di preoccupazione e anzi continuava come niente fosse a giocare, ridere, tifare la squadra del cuore, mangiare e dormire con il piacere e la regolarità di un cucciolo di labrador… ecco, era meglio non rischiare.
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Solo che quando si era trattato di progettare l’estate, programmando vacanze e spostamenti e soprattutto stabilendo quanti giorni il pargolo dovesse trascorrere con ciascuno dei genitori, era saltato fuori che nell’unica settimana di ferie del padre il bambino sarebbe stato affidato a lui. A quel punto, con una leggerezza che in seguito gli sarebbe parsa affrettata, il padre si era convinto che fosse una buona idea passare la settimana al mare, nel paesino sul promontorio in cui viveva lei. Già da qualche tempo, del resto, aveva manifestato il desiderio di conoscere prima o poi il bambino: voleva vedere se gli somigliava, aveva detto, lusingando la vanità di lui che in quel dubbio aveva creduto di indovinare uno slancio di tenerezza che abbracciava tutte le fasi della sua esistenza passata, compresa l’infanzia (essendo un uomo, non l’aveva sfiorato il sospetto che si trattasse di una sottilissima proiezione di rivalità, né che potesse essere il travestimento di un afflato materno): pensava che lei volesse ravvisare, nel suo bambino, il bambino che era stato lui. Ma la vera ragione per cui aveva accettato di passare proprio lì quell’unica settimana di vacanze, col rischio che il bambino si rendesse conto del nascente legame fra loro e spifferasse tutto alla madre (il che avrebbe incrinato la fredda cortesia del loro nuovo rapporto e causato una serie di ulteriori noiosi effetti collaterali), era che in quel periodo lui era avvinto mani e piedi dall’incanto di lei.
Non ricordava di esser mai stato tanto preso da una donna; forse era successo, in giorni lontani che il tempo e la noia avevano cancellato, ma se gliel’avessero chiesto lui avrebbe negato, e in buona fede, perché nella sua memoria non c’era traccia di una passione simile. Adorava ogni cosa di lei, ogni minuscolo dettaglio, l’inflessione della voce, la grinza delle sopracciglia, la sfumatura dell’unghia, l’ombra della massa dei capelli, la curva del collo, persino la sporgenza del malleolo. Sapeva di essere melenso, eppure non poteva impedirsi di elencare, ogni volta che ci pensava (cioè sempre, ragion per cui non riusciva più a lavorare ed era proprio ora che andasse in vacanza) i minuscoli pretesti di quel sortilegio. Il profumo di lei, poi, era qualcosa di sublime: la sua pelle sapeva di miele, a tratti di passito, e quando capitava che esalasse note più pungenti, prendeva un sentore fresco, come di menta selvatica. Fosse stato un elisir magico, si sarebbe spiegato lo stato di deliquio in cui si trovava il padre la sera del primo giorno di vacanza, quando nel ristorantino del paese, arrampicato in cima a una scogliera scura di bosco ai cui piedi sciabordava il mare, ebbe luogo l’incontro fra il bambino e l’amante. Per delicatezza, infatti, il padre aveva avuto il buonsenso di non accettare l’invito di lei, che insisteva per averli nella sua villa sostenendo che c’erano tante stanze e sarebbero stati benissimo; aveva affittato invece una casetta poco distante, solo per sé e il bambino.
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Si può dire, senza girarci troppo intorno, che l’incontro ribaltò ogni previsione. Il padre, preparandosi a quel momento, aveva immaginato diversi sviluppi: che il bambino si spazientisse, che si seccasse, che si annoiasse. Quello che accadde lo lasciò perplesso, perché non somigliava a nessuna delle ipotesi che aveva formulato fra sé.
Aveva telefonato al ristorantino prenotando per quattro, e avuto cura di ricordare alla cucina di non servire piatti che contenessero aglio – era allergico, l’aveva scoperto qualche tempo prima con una brutta crisi anafilattica. Ma al ristorante lo sapevano già, perché c’era stato in compagnia di lei, che era una vera habituée di quello come di tutti i locali del circondario; era la regina di quel paesino sul mare, lui se n’era accorto e non aveva saputo dissimulare la sua fierezza. Le aveva baciato la mano bianca e profumata di miele sopra il tavolino imbandito; lei aveva sorriso e sussurrato, qui lo sanno tutti che io sono la maga, e da allora quello era diventato fra loro uno scherzo, una schermaglia che precedeva i momenti di abbandono a cui lui pensava ormai tutto il tempo quando erano lontani.
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Era prigioniero della maga e non aveva nessuna intenzione di divincolarsi dalle catene del suo incanto. Se non quella sera: temendo di mostrarsi troppo coinvolto di fronte al bambino – armato come tutti i bambini di quell’implacabile curiosità che fa saltare i chiavistelli di qualsiasi segreto – aveva ritenuto opportuno invitare anche la signora che gli aveva affittato la casetta: un’antropologa con lunghi occhi bistrati, eccentrica nell’aspetto ma molto materna nei modi, che dopo una giovinezza in giro per il mondo da un paio di decenni insegnava latino e greco al liceo locale. Sul promontorio si conoscevano tutti: l’antropologa era infatti una buona amica di lei, che pure teneva molto a specificare come la loro amicizia prescindesse dalla differenza d’età. Differenza che non era però così abissale: quando le due arrivarono al ristorante e sedettero al tavolo a cui il padre e il bambino avevano già preso posto senza scambiare una parola a proposito dei coperti in più, al bambino sembrarono genericamente due signore, della generica età delle signore, persone adulte con cui era rassegnato a non aver nulla da spartire. Non era scontento, di non essere solo con il padre; ma la presenza delle due commensali sembrava dover passare in secondo piano, nell’apatica indifferenza che lo disponeva ad accontentarsi dell’apparenza casuale di quell’incontro, come se per puro azzardo la padrona di casa si fosse trovata a passare dal ristorante in compagnia di un’amica e il padre, che del resto non si era premurato di elargire troppe spiegazioni, per semplice cortesia le avesse invitate a unirsi a loro.
Se fosse andata così, molte cose sarebbero rimaste alterate per sempre nei ricordi che nella sua età più matura, e persino nella sua vecchiaia, sarebbero tornati a visitare il bambino con quell’intensità che talvolta il tempo amplifica come un dono tardivo alla memoria. Forse, ognuno di noi ha bisogno di raccontarsi che le proprie scelte nascono da un condizionamento fatale, e poco importa se sia vero o no; importa che ci crediamo, e il bambino, diventato uomo, era destinato a credere che tutta la sua vita sentimentale fosse stata una risposta a quella sera d’estate, a
quell’incontro apparentemente casuale che casuale non era. E che gli sarebbe rimasto indifferente se la bistrata antropologa non avesse avuto l’idea di coinvolgerlo nella conversazione, come fosse un adulto pure lui.
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Da insegnante, non poteva tollerare che il tempo della cena trascorresse per lui come un supplizio da cui salvarsi con l’immersione in un videogioco, che rispondesse a monosillabi e mangiasse con la mano libera senza guardare negli occhi i commensali. Così, calcando sulle sillabe per assicurarsi – come faceva con i suoi studenti – la curiosità e poi l’attenzione del virgulto, mentre per la tavola passavano antipastini di mare, piatti di moscardini fritti e polpette di cernia, piramidi di cozze e cannolicchi, e il padre coglieva ogni occasione buona per sfiorare la mano dell’amata, l’antropologa strinse gli occhi listati di nero fino a farne due fessure feline, e chiese al bambino: ma lo sai che qui c’è la casa di Circe? E prese a raccontargli la storia della maga, delle belve addomesticate nel suo giardino, che altro non erano che uomini da lei tramutati con una pozione, un miscuglio di vino dolce, orzo, miele e menta che si chiamava ciceone. E dello sgomento dei compagni di Ulisse alla vista di quelle fiere incapaci di ruggire; e della loro metamorfosi in porci. Perché porci?, chiese il bambino, e a quel punto la signora che sedeva accanto a suo padre, che sotto il tavolo gli cercava il piede col piede (ma questo il bambino non poteva saperlo), e fino a quel momento non aveva quasi parlato, finalmente rise, e ridendo le vibrava la gola bianca, e vibrava la massa riccioluta dei capelli, di un biondo rosso che si accese nel riflesso delle luci del ristorante.
Il bambino trovò strano che una signora di quell’età portasse le trecce, e l’antropologa dovette accorgersene, perché disse qualcosa a proposito dei riccioli intrecciati della maga, e poi passò a spiegargli che le trasformazioni rivelavano qualcosa della natura degli uomini suoi prigionieri. La signora bionda si irrigidì e rise ancora, guardando fisso il bambino, o almeno così a lui parve – non poteva sapere che la sua postura poco naturale era dovuta al fatto che intanto, sotto il tavolo, non senza civetteria, stava tentando di respingere i contatti che il padre cercava con spericolata insistenza.
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Insomma, gli occhi del bambino incontrarono gli occhi della signora bionda, e anche se fu questione di un attimo, una scintilla appena, lui fu sicuro che lei fosse la maga.
Naturalmente non ne parlò con nessuno, ma quella certezza nuovissima lo accompagnò come un’ombra, giorno e notte, per tutta la vacanza. Non era un pensiero spiacevole; un poco inquietante, certo, ma più che altro per l’impalpabile curiosità che gli suscitava, e che non trovava modo di acquietarsi. Di fatto, per la prima volta in vita sua, si interessò a una donna che non era sua madre. Certo – avrebbe sorriso molti anni dopo, raccontando a una donna che aveva amato e tradito la storia di quell’estate, con il disincanto di chi ormai è lontano dall’urgenza delle curiosità dell’infanzia – dall’esterno poteva pure apparire che, in quei giorni sul promontorio, nell’ultima vacanza da bambino insieme a suo padre, lui fosse un poco ossessionato dalla signora bionda.
Ma non se ne accorse nessuno: non suo padre, almeno. D’altronde era ossessionato pure lui, più di lui, c’è da capirlo. L’antropologa dovette subodorare qualcosa, e gli regalò un libro sulla maga Circe. Lui lo studiò da cima a fondo, mentre non cessava di studiare la donna bionda. Un giorno, mentre il padre era impegnato nella pennichella postprandiale, si spinse fino al limitare del giardino della signora, che per lui da quel momento in poi fu incontrovertibilmente il giardino della maga: pullulava di animali selvaggi, immobili. A vederli si sentì un brivido alla base del collo, eppure non se ne andò. Rimase appostato, aspettando che qualcosa si muovesse. Se gli avessero detto che erano cespugli di bosso potati in forma di animali per capriccio di un giardiniere estroso, lui avrebbe riso e non ci avrebbe creduto nemmeno un secondo, perché la realtà sbiadisce al cospetto delle fantasticherie, che alla fin fine sono l’unica verità cui siamo disposti a credere.
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Nel libro gli piacque molto la storia dell’erba moly, che una nota diceva essere simile all’aglio, e che il dio Hermes, tramutato per l’occasione nelle sembianze di un ragazzino, ordina a Ulisse di unire al ciceone, come antidoto al potere della bevanda, per evitare di esser tramutato in porco. Dovette fantasticare parecchio su quella storia, senza parlarne a anima viva; perché quando, l’ultima sera della vacanza, la signora invitò a cena padre e figlio, e servì come antipasto una zuppa fredda spagnola, il gazpacho, specificando che nel bicchiere destinato al padre l’aglio non c’era, il bambino fu preso da uno di quei pensieri indecifrabili che, se ci colgono in certi stati d’animo, ci spingono ad agire con una prontezza e una scaltrezza inusitate. Approfittando della distrazione del padre – stato tutt’altro che raro, in quei giorni che trascorreva con lo sguardo allacciato allo sguardo della maga – sostituì il proprio bicchiere a quello di lui. Disse poi che l’aveva fatto perché non voleva lasciare suo padre privo dell’antidoto alla pozione, che non voleva che fosse esposto ai rischi della trasformazione; ma la verità, quella che non avrebbe ammesso mai, e che anzi non riusciva neppure a pensare per esteso, era che voleva sentire su di sé che effetto faceva, bere il ciceone e affrontare
la mutazione.
Non fu trasformato in maiale, nemmeno dopo che ebbe bevuto tutto d’un fiato il bicchiere di gazpacho senz’aglio destinato al padre. Il quale, invece, conobbe sì una spiacevole metamorfosi: iniziò a gonfiarsi intorno alle labbra, poi alla gola, gli occhi gli si rimpicciolirono fino a sparire nel viso tumido e fu trasportato d’urgenza al pronto soccorso per la violentissima reazione allergica. Di comune accordo, senza bisogno di dirselo, padre e figlio non fecero parola dell’incidente alla madre. E quando, tornato a scuola, il bambino scrisse in un tema di aver conosciuto la maga, la maestra non giudicò che fosse il caso di convocare i suoi genitori; era abituata alla fantasia dei bambini, non c’era proprio niente di strano. Ma noi che abitiamo al promontorio, sappiamo che era tutto vero. Che la maga continua a preparare i suoi incanti, e gli uomini si lasciano ingannare volentieri.
IL PROGETTO * – Il mare di Circe, volume da cui è tratto il testo di Ilaria Gaspari, è un libro che coinvolge autrici e autori come Francesca Bellino, Rino Bianchi, Valentina Biletta, Luca Calselli, Elisa Casseri, Tiziana Colusso, Marco Filoni, Francesco Forlani, Vins Gallico, la già citata Gaspari, Marilina Giaquinta, Anna Giurickovic Dato, Giulia Martini, Matteo Nucci, Ilja Leonard Pfeijffer, Enrico Rambaldi Luca Ricci e Isabella Vincentini. Responsabile del Progetto Mare di Circe – Narrazioni e Mito è Luca Calselli, curatore della Residenza delle Narrazioni del Mare di Circe, che nell’introduzione spiega: “(…) In vista della imminente pubblicazione dell’Avviso per il Titolo Città della Cultura della Regione Lazio 2019, io che avevo consentito alla Città di Colleferro di essere intitolata, nel 2018, prima Città della Cultura della Regione Lazio, venivo chiamato da diversi sindaci, che mi offrivano l’opportunità di lavorare per loro. Una mattina, mentre, insieme a Rino Bianchi, andavo a incontrare il Sindaco della città che, senza troppa convinzione, avevo scelto, tra le tante, mi telefonò un’amica, per conto del Sindaco di San Felice Circeo, che mi invitava a un incontro. Voleva cogliere l’occasione di quell’Avviso regionale per incaricarmi di progettare un piano di sviluppo comprensoriale visionario, mettendo insieme San Felice Circeo, Ponza e Ventotene. Si trattava proprio del piano che sognavamo io e mio padre e il Sindaco di San Felice Circeo stava chiedendo a me, di farlo diventare realtà…”. E così, pian piano, si sviluppa questo libro collettivo, che ha al centro San Felice Circeo, che “evoca racconti straordinari, miti e leggende che sono patrimonio di tutti, in tutto il mondo. Chiunque, tra i bambini e gli adulti, di ogni strato sociale, in ogni parte del globo, è affascinato dal mito della Maga Circe e dal racconto di Ulisse che, nel suo peregrinare, sbarca su quell’isola e incontra la bellissima Maga dai riccioli belli. Poco importa se l’Isola di Eèa sia o non sia un’isola, dal punto di vista geografico. Poco importa se l’isola evocata da Omero sia davvero il Promontorio del Circeo o non sia, invece, l’isola di Ponza, frequentata dai greci e nota a Omero, che potrebbe avere individuato la residenza di Circe, proprio nell’isola rosa e delle erbe sacre. Poco importa se qualcuno non crede che Ventotene sia l’isola delle perfide sirene che, invece, a Ventotene si possono vedere, ancora oggi, e se ne può ascoltare il canto, rimanendo affascinati e rapiti”.
L’AUTRICE ** – Ilaria Gaspari, scrittrice, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Dal 2015 collaboratrice di ilLibraio.it, scrive per diverse testate e collabora con radio, tv e scuole di scrittura. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni. Nel 2022 per Giulio Perrone editore è uscito A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Con Emons, (e con il sostegno dell’Institut Français Italia), sempre nel 2022, ha curato e condotto il podcast Chez Proust. Per la collana digitale Quanti di Einaudi ha inoltre pubblicato il saggio breve Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza.
Guanda a marzo 2024 ha pubblicato il suo secondo romanzo, La reputazione, in cui la scrittrice affronta temi stringenti della nostra contemporaneità, e lo fa in una prosa capace al tempo stesso di profondità e leggerezza. Con La reputazione Gaspari indaga sul rapporto tra apparenza e identità, sul peso della maldicenza e sulla difficile conquista della maturità. Cosa succede quando la diffidenza inquina lo sguardo, quando i confini fra le colpe e i pettegolezzi si fanno labili, quando fidarsi significa rischiare?
Ora è tornata in libreria con il racconto lungo L’hotel del tempo perso – Non rubare, un giallo a tinte filosofiche che omaggia Agatha Christie e le sue atmosfere, uscito in una nuova collana Rizzoli ispirata ai dieci comandamenti.
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Fotografia header: Ilaria Gaspari, nella foto di Chiara Stampacchia