“Oggi è molto diffuso lo schema dell’auto-vittimizzazione; della ricerca, nel lettore, di un compagno che abbia pena di te, che insieme a te patisca il destino cinico e baro, che esecri la società che ti circonda. Si crea così una mefitica solidarietà tra narratore, autore e lettore. La narrativa su cui mi sono formato, invece, tende proprio a spezzare quest’assedio ricattatorio…”. Alessandro Piperno, tornato in libreria con “Aria di famiglia”, dialoga su ilLibraio.it con Ilaria Gaspari, l’autrice di “La reputazione”. Per lo scrittore Premio Strega “il lettore medio contemporaneo è abituato a prendere tutto alla lettera”. E ancora: “Un romanzo che ti offre dei codici morali a cui attenerti è un romanzo fallito. Un romanzo riuscito è un romanzo ambiguo”. Tanti i temi affrontati e gli autori citati (da Proust a Roth, da Svevo a Levi, passando per Coetzee, Sartre e molti altri). Piperno, tra le altre cose, ammette di apprezzare l’idea di potersi considerare uno scrittore comico: “Fra gli autori che più amo, e parlo di giganti, ce ne sono diversi che ritengo dei grandi umoristi…”

Torna in libreria Alessandro Piperno con il secondo capitolo della sua trilogia sulle stagioni della vita: tre età di uno stesso protagonista in tre volumi autonomi, che dialogano fra loro per rimandi balzacchiani, personaggi e circostanze che riaffiorano.

Aria di famiglia, uscito per Mondadori qualche settimana fa, segue Di chi è la colpa, il racconto dell’infanzia del protagonista e narratore, Alessandro Sacerdoti, che qui cogliamo nella sua maturità; “il terzo romanzo, che sto scrivendo adesso – mi dice Piperno nel suo studio, davanti a una finestra aperta sul cielo della primavera che inclina verso l’estate – dovrebbe essere la sua giovinezza, i trent’anni”.

alessandro piperno aria di famiglia

In questo capitolo di mezzo si parla molto di adolescenza, e poi di infanzia, per parlare di maturità. Il protagonista, Alessandro Sacerdoti, lo incontriamo in piena crisi creativa, alle prese con un’accusa infamante che scuote la sua quiete dalle fondamenta, e lo costringe a fare i conti con un mondo che non comprende più. Ma proprio quando sembra aver perso tutto, la possibilità di vivere la propria maturità di uomo gli si spalanca in una forma inaspettata; accessibile solo nel momento in cui si confronta prima con l’adolescente che è stato, ritrovando i propri compagni di scuola al funerale di una di loro, in una riunione da Grande freddo che riecheggia l’apertura di Pastorale americana e il suo diretto antecedente proustiano, il bal des têtes del finale della Recherche; e poi, con un alter ego bambino: Noah, che rimane solo al mondo e viene affidato proprio al professore, misantropo e ostinatamente scapolo. Lui che a sua volta è stato un orfano cresciuto da uno zio tutore, si trova di fronte una nuova versione della propria infanzia, ed è costretto a tendersi verso quest’altro bambino, che lo cambia.

A muovermi era un’idea che trovavo commovente: mettere insieme, nella stessa casa, uno scapolo cinquantenne senza figli, che non ha mai sognato di averne, e un bimbo traumatizzato. Lui, Sacerdoti, miscredente, ormai lontano dalle tradizioni, in pratica ateo; l’altro, un bambino ortodosso”.

Noah per prima cosa, quando si sveglia, come un miope si metterebbe gli occhiali, indossa la kippah. E costringe questo cinquantenne in crisi, impigrito e un po’ esausto, a guardare al suo mondo: al mondo dell’infanzia, al presente. “Il narratore, quando incontra il bambino, ha perso tutto; è ridotto a tabula rasa. Ha perso la sua rispettabilità artistica, la sua credibilità professionale, la sua fiducia nel fatto di essere giovane, perché ha avuto un incontro con la morte; e nel momento in cui è di nuovo Adamo, completamente vergine, ha la possibilità di immergersi in un mondo alternativo al suo. Naturalmente, lui non si pone dal punto di vista del pedagogo; è invece attratto proprio dalle meravigliose libertà dell’infanzia. Insieme fanno tardi la notte, ordinano cibo a domicilio, stabiliscono un rapporto di autentica complicità”.

Il ragazzino Noah, che si affaccia alla pubertà, è un personaggio di incantevole realismo: e infatti, è stato creato con un assiduo studio dal vero: “Per impratichirmi, ho costretto i miei amici, poveretti, a lunghe cene con i loro pargoli che ho sottoposto a serrati terzi gradi. È bellissimo avere a che fare con un ragazzino o una ragazzina di otto, nove, dieci anni, perché sono straordinariamente ricettivi. Non sono per niente snob: se ti metti al loro livello, sono disposti a concedersi al tuo. Mi piaceva l’idea che lui tornasse bambino insieme a questo bambino, e che il loro affetto nascesse non perché Noah va verso di lui, ma perché è lui ad andare incontro a Noah”.

L’ho trovato un libro profondamente umoristico. Sbaglio?
“Mi fa molto piacere. Lo considero un grande complimento; mi piace l’idea di potermi considerare uno scrittore comico. Fra gli scrittori che più amo, e parlo di giganti, ce ne sono diversi – Dickens, George Eliot, Proust – che ritengo dei grandi umoristi. Hanno saputo scrivere scene che fanno ridere fino alle lacrime”.

A volte ho la sensazione che l’inclinazione umoristica, oggi, nella narrativa considerata “letteraria”, si sia un po’ appannata… come se un romanzo, per essere preso sul serio in quanto tale, dovesse mantenere le distanze dal comico. Che ne pensa?
“È molto diffuso lo schema dell’auto-vittimizzazione; della ricerca, nel lettore, di un compagno che abbia pena di te, che insieme a te patisca il destino cinico e baro, che esecri la società che ti circonda. Si crea così una mefitica solidarietà tra narratore, autore e lettore. La narrativa su cui mi sono formato, invece, tende proprio a spezzare quest’assedio ricattatorio. Il narratore di questa storia, per molti tratti – certe caratteristiche esteriori, una certa forma di introspezione – mi somiglia; ma è come se avessi preso un personaggio molto simile a me stesso e gli avessi sadicamente inflitto tutti i miei timori più ancestrali. E credo sia proprio il divertimento che provo nel torturarlo a produrre l’effetto comico. Naturalmente, devi trovare un lettore che sia disposto a seguirti. Il problema, molto spesso (anche se devo dire che finora con questo libro non l’ho incontrato) è che il lettore medio contemporaneo è abituato a prendere tutto alla lettera. C’è il rischio, quindi, che non stia al gioco e non capisca gli atteggiamenti del narratore: la sua malafede, la sua incapacità di essere completamente onesto con sé stesso e con gli altri. Però, insomma, quando da ragazzi abbiamo letto La coscienza di Zeno, per fare un esempio tipico, ci piaceva proprio per via di questo personaggio maldestro, che non faceva che raccontare bugie e dissimularsi per depistare, creando un piacere che si è perduto, così come si è perduto un altro piacere per me essenziale: il romanzesco. Cioè l’idea che quel che capita nella vita – spesso banale, se non squallida – sia una cosa; un’altra, quello che accade in un’opera narrativa, che deve favorire la peripezia, l’improbabile. Nel momento in cui scrivo una scena devo fare in modo che mi sorprenda. Non cerco la soluzione semplice, a portata di mano. La scrittura giusta è sempre la terza, la quarta. Mai la prima”.

Siamo assuefatti, forse anche dalla prolungata esposizione ai social, a uno schiacciamento fra l’io narrante e l’io dell’autore o dell’autrice. Il suo protagonista (e narratore), Sacerdoti, sembra volersi sottrarre con ostinazione a qualsiasi possibilità di salvezza rispetto alla situazione in cui si va a cacciare. È una forma di ribellione, questa passività?
“Lui ha un costante atteggiamento – che a molte persone risulta particolarmente irritante – di perplessità e condiscendenza. Mi viene in mente uno dei Sillabari più belli di Parise, che amo molto. Una specie di parodia di Pasolini a un certo punto chiama il narratore per chiedergli un parere, e insiste sulla necessità di impegnarsi per una determinata causa che al momento va per la maggiore. La risposta che dà il Parise dei Sillabari mi sembra assolutamente pertinente, e straordinariamente efficace: quello lo incalza, insomma, tu cosa pensi di questa cosa? E lui risponde: non lo so, non me ne intendo. Non è detto che uno debba intendersi di tutto, non è detto che si debba avere un’opinione su qualsiasi cosa; soprattutto, non è detto che chi fa il nostro mestiere abbia un’opinione migliore dell’uomo della strada. Questo è un atteggiamento che ho prestato volentieri al narratore, che è sempre in preda a una vaga perplessità. Però è molto risoluto nell’arginare chi vuole imporgli il grottesco dei nostri tempi”.

Di fronte agli attacchi che riceve, lui sembra voler rivendicare la possibilità dello scetticismo come atteggiamento etico; è ancora possibile, nel mondo di cui Sacerdoti esperisce la condanna?
“Il problema di scrivere un libro come questo, soprattutto la prima parte, era il fatto di avere alle spalle scrittori straordinari: il Roth de La macchia umana, il Coetzee di Vergogna… Questi scrittori così virili, shakespeariani, hanno in genere una posizione estremamente antagonistica; una tracotanza baldanzosa, una sicurezza nei loro mezzi e nelle loro tesi. Io avevo bisogno di emanciparmi da questi modelli importanti, e la via giusta mi è parsa quella di evitare di scrivere un romanzo a tesi. Sacerdoti è un protagonista talmente scettico e ricettivo che, a un certo punto, si chiede lui stesso se chi lo accusa non abbia, in un certo senso, ragione. Si chiede se la scelta di incentrare un’intera lezione sulla misoginia di Flaubert non gli sia stata dettata da un atteggiamento, diciamo, che inclina al cupio dissolvi; se non sia stato un contorcimento dostoevskiano per incastrarsi da solo in una tragedia. Perché lui si rende conto perfettamente che molte delle istanze femministe che hanno cambiato il volto dell’università nel corso dei decenni hanno un senso e un’importanza innegabili. L’università in cui è cresciuto, così come quella in cui sono cresciuto io, era autenticamente, oltraggiosamente misogina, e lui questo lo sa. Ha visto le profferte dei baroni alle studentesse sue compagne di studi, ha visto la condiscendenza riservata alle donne… Insomma, ho voluto mettere in scena un narratore che protesta contro un sopruso; ma che al contempo riflette, si domanda se dietro questo sopruso non ci sia una qualche verità. E, in effetti, una forma di verità c’è: tanto che lui arriva ad accettare, se non serenamente certo stoicamente, il trattamento che riceve”.

Certo non cerca connivenze di nessun tipo; né nelle persone che gli stanno intorno, né in chi legge. È un punitore di sé stesso, un Heautontimorumenos? C’è autolesionismo, nel suo assumere su di sé anche il peso dell’isolamento?
“Gli capita tutto insieme: la persecuzione accademica, la morte della compagna di classe, che è un’esperienza di morte quasi proustiana. La crisi di mezza età. In questo accumulo di cataclismi finisce per distruggersi con le sue mani. Siccome non siamo negli Stati Uniti (gli italiani hanno tanti difetti, ma grazie al cielo non il puritanesimo), l’idea che venisse cacciato dall’università mi sembrava esagerata. Mi sono dovuto inventare un escamotage: lui si incastra da solo, con una registrazione che innesca il meccanismo tipico dei social. Basta una frase estrapolata dal contesto, replicata all’infinito, per rovinarlo. La gogna mediatica, nel nostro paese, è decisamente più plausibile rispetto al provvedimento preso dall’alto. L’esergo del mio libro precedente, Di chi è la colpa, si lega proprio a questo: Dove si giudica non c’è giustizia. Una frase che mi colpì da ragazzino, la dice Platon Karataev, contadino, a Pierre Bezuchov proprio alla fine di Guerra e pace. È pronunciata in un contesto cristiano che non mi appartiene, certo, ma le conferisce una forza assoluta. Chi fa le recensioni, chi mette i voti, chi ti manda in galera, gli arbitri di calcio, i vigili urbani: chi giudica si arroga il diritto di un giudizio, ma nel farlo viola la sacralità della giustizia. Riportando il discorso su un piano letterario, è chiaro che il mio narratore ha delle difficoltà a giudicare il prossimo; ha, dunque, difficoltà a giudicare anche la sua persecutrice”.

Quando lo incontriamo all’inizio del romanzo, Sacerdoti vive un inaridimento del suo amore per la letteratura: da scrittore, da insegnante, da lettore. È perché il mondo intorno a lui sta disimparando a leggere, se non per cercare ricette per vivere meglio, rassicurazioni di essere persone migliori, incoraggiamenti pratici?
“Questa notazione mi sembra opportuna, benché non ci avessi pensato mentre scrivevo: è chiaro che la sua delusione rispetto alla scrittura deriva anche dal fatto che quando insegna i grandi classici ai ragazzi nessuno si interessa più alle nuances prodotte dalla scelta di un certo aggettivo rispetto a un altro in Flaubert. Vogliono conoscere non lo stile, non le opere, ma le opinioni di Flaubert”.

In un certo senso, possiamo dire che è la versione corrente del biografismo alla Sainte-Beuve? Il problema a mio parere nasce nel momento in cui al desiderio di leggere, scoprire, sperimentare, lasciarsi turbare in quella maniera speciale in cui l’arte può permettersi di farlo, si sostituisce l’esigenza di individuare cause o figure cui aderire.
“Questa è una cosa che mi sta particolarmente a cuore. Da un certo punto di vista, Sartre ha perso: nessuno lo legge più, tutti ne parlano male. Ma nella prefazione alla prima edizione di Che cos’è la letteratura? lui mostra di auspicare a un mondo in cui gli scrittori per essere considerati tali debbano esprimere un giudizio su qualsiasi cosa e ricusare qualsiasi cosa li allontani da quel giudizio. E dunque, ha vinto lui. Cioè: ha perso, diciamo, nella prassi, ma ha vinto nella sostanza”.

Forse quindi, in questa prospettiva, la “sconfitta” di Sartre scrittore potremmo considerarla paradossale conseguenza della vittoria della sua idea di letteratura?
“Il letterato che ha un costante bisogno di salire in cattedra, di giudicare il prossimo, di fare la lista dei buoni e dei cattivi è sostanzialmente come l’eroina di questo romanzo, Teresa Ghinassi. Che coltiva peraltro una forma di ipocrisia, perché animata da un’esigenza di potere che si ostina a negare. Agisce l’idea sartriana secondo cui uno scrittore, prima di essere qualcuno che inventa e racconta storie in maniera il più possibile elegante, è una persona che ha l’obbligo di assumersi la responsabilità di tutto quello che dice. La disonestà di Sartre consiste nel fare dell’esposizione di opinioni il fulcro dell’attività dello scrittore; oltretutto, citando a sostegno della propria tesi l’affaire Dreyfus. Ma lì abbiamo a che fare con un uomo che si è messo contro un intero sistema; e uno scrittore come Zola, per difenderlo, è stato condannato per vilipendio alle forze armate. Si tratta di un episodio limite, realmente grandioso”.

Scopri la nostra pagina Linkedin

Seguici su Telegram
Scopri la nostra pagina LinkedIn

Notizie, approfondimenti, retroscena e anteprime sul mondo dell’editoria e della lettura: ogni giorno con ilLibraio.it

Seguici su LinkedIn Seguici su LinkedIn

Fra l’altro, un episodio che interessò anche Proust; il quale si impegnò, non certo per posa, nel promuovere la petizione degli intellettuali dreyfusisti, coinvolgendo Anatole France… ma nella Recherche il narratore si mantiene tutto sommato neutrale rispetto all’affaire. Dreyfus è vittima di un errore giudiziario; Sacerdoti, di una shitstorm che gli rovina la reputazione, a partire da alcune sue frasi che rimbalzano da una condivisione all’altra. Cosa succede alle parole, sui social?
“La parola in questi contesti viene stravolta: citata male, isolata e appunto giudicata. Io non sono sui social, però so che ogni tanto alcune mie frasi vengono riportate, ovviamente estrapolate dal contesto, e sotto compare un profluvio di commenti, di ingiurie. Sono fenomeni che trovo molto inquietanti, mi fanno pensare a Massa e potere di Elias Canetti”.

A proposito di linguaggio, i nomi come li ha scelti? Non mi dica che è un caso che compaia un Charcot.
“Proprio così… il barone universitario, antico maestro di Sacerdoti, si chiama come il collega del padre di Proust! Nella mia onomastica nulla è lasciato al caso. Da proustiano incallito sono ossessionato dai nomi. Che chiaramente hanno sempre un carattere immediato, di identificazione morale. Credo che i due più grandi inventori di nomi nella storia della letteratura – Proust a parte: su di lui non sono obiettivo – siano Balzac e Dickens. I nomi di Dickens sono indimenticabili perché identificano immediatamente un destino: è importante, la letteratura è fatta di lettere, di sillabe, di parole. Per questo i nomi sono importanti in sé, devono evocare. Il nome Teresa Ghinassi, per qualche ragione, mi evocava qualcosa di duro, come l’acciaio, oltre a farmi pensare alla Santa, e a Teresa di Calcutta, in cui, accanto alla carità, ho sempre visto un’inflessibilità impressionante”.

Può interessarti anche

Poi per esempio ho notato che le donne hanno nomi che iniziano con la V: Viola, Virginia, Valentina, Veronica.
“Questo non l’avevo notato nemmeno io! Ma i nomi femminili, nei miei romanzi, hanno sempre una vaga assonanza. Sono nomi sbarazzini, alludono a un milieu borghese che fa parte del mio immaginario… Negli anni ‘80, a Roma, tutti i nomi di quell’ambiente avevano a che fare con il patriziato: Flavia, Flaminia, Tarquinia, Valeria. La ricerca di una connotazione, di una sfumatura, è sempre presente nella scelta dei nomi. Ma, come vede, succede anche che certi effetti, come questo ricorrere della V, si producano senza accorgersene”.

Scopri il nostro canale Telegram

Seguici su Telegram
Le news del libro sul tuo smartphone

Ogni giorno dalla redazione de ilLibraio.it notizie, interviste, storie, approfondimenti e interventi d’autore per rimanere sempre aggiornati

Inizia a seguirci ora su Telegram Inizia a seguirci ora

La trilogia racconta le stagioni della vita. Però non procede in ordine cronologico.
“Quest’idea di stravolgere i tempi non credo abbia altra ragione che la pura bizzarria. Il fatto è che l’idea di un ordine severamente diacronico quasi mi annoia; ho voluto invece creare un gioco, diciamo, intertestuale, tra testi che possono essere letti – questa sarebbe la sfida – anche autonomamente; ma chi li leggerà tutti e tre potrà, spero, trarre piacere da assonanze sparse, dai ritorni balzacchiani dei personaggi fra un romanzo e l’altro”.

Sacerdoti non tira in ballo in nessun modo la morte violenta della madre.
“Perché è una di quelle forme di rimosso di cui si ha una certa difficoltà, un certo ritegno a parlare. Però il rispecchiamento affettivo che prova nei confronti del ragazzino che prende con sé nasce proprio da un processo empatico. Credo molto in un principio che, a ben guardare, emerge anche dalla Recherche“.

Quale?
“L’immaginazione è una forma di empatia. Proust scrive una cosa bellissima: che, alla fine, l’artista è buono. Non si esprime in termini così corrivi come sto facendo io, ma il punto è che l’arte, nella sua accezione più alta, migliora le persone, non tanto perché insegna loro a campare, no; perché offre degli strumenti di comprensione dell’altro che altre forme del pensiero, altre discipline – nemmeno, che so, la sociologia, la politica – non possono offrire. Il caso più straordinario da questo punto di vista per me è Montaigne. Che capisce perché riconduce tutto alla sua esperienza. Che capisce che i cannibali sono più civili di lui, perché capisce il loro punto di vista. Credo che un buon lettore di narrativa dovrebbe investire su questa capacità di comprensione, piuttosto che su quella di giudizio. Invece, per esempio, con i miei studenti mi trovo ogni tanto nella condizione di dover difendere dei personaggi dall’accusa di avere comportamenti che loro giudicano inappropriati”.

Scopri le nostre Newsletter

Iscrizione alla Newsletter
Il mondo della lettura a portata di mail

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

scegli la tua newsletter Scegli la tua newsletter gratuita

Il trauma del protagonista è come silenziato.
“Leggendo Primo Levi, lo scrittore del trauma per antonomasia, si vede bene che anche lui, che ha più di una ragione per essere furibondo, ha sempre un atteggiamento di grande controllo, talvolta addirittura iper-razionale, pur di non lasciarsi andare alle pulsioni del patetismo o del giudizio. Questa è la grandezza di Primo Levi. Che è sempre più immensa, con gli anni. Sta anche nella statura morale, nel suo controllo sulle esperienze che ha avuto”.

Forse la grandezza morale in uno scrittore sta nel porsi di fronte a ogni esperienza come di fronte a un’esperienza umana – all’inverso di quello che richiede ogni forma di moralismo spicciolo?
“Un romanzo che ti offre dei codici morali a cui attenerti è un romanzo fallito. Un romanzo riuscito è un romanzo ambiguo. C’è un pensiero bellissimo nei diari di Tolstoj, che dice tutto di come si fa un romanzo. Scrive Tolstoj che quando un suo personaggio è troppo positivo, lui gli trova dei difetti; e quando un personaggio è troppo negativo gli trova dei pregi, perché ha bisogno di renderlo complesso e contraddittorio. Prenda Dolochov, quel dongiovanni che va a letto con la moglie di Pierre, Hélène. Pierre va a duello con quest’uomo meschino, lo ferisce per sbaglio, e quello corre a casa piangendo perché teme che la mamma muoia di crepacuore. L’idea che un cicisbeo del genere dica mia mamma non può sopravvivere senza il mio amore filiale immediatamente rende quel personaggio molto più complesso, molto più umano. Lo rende vero. Sempre nei diari, Tolstoj dice che ha iniziato a scrivere Anna Karenina con l’intento di creare una donna brutta, inconsistente, screditata eccetera. Ma pian piano, suo malgrado, si innamora di lei; e poi lei lo mette contro la morale a cui lo stesso Tolstoj aderiva, quella della fedeltà coniugale… L’autonomia dei personaggi non è una semplice trovata per cui i personaggi vanno per conto loro; è proprio l’idea che quando tu crei un personaggio devi dargli spazio, perché possa affermarsi in tutta la sua complessità, nelle sue contraddizioni”.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Dal 2015 collaboratrice di ilLibraio.it, scrive per diverse testate e collabora con radio, tv e scuole di scrittura. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni. Nel 2022 per Giulio Perrone editore è uscito A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Con Emons, (e con il sostegno dell’Institut Français Italia), sempre nel 2022, ha curato e condotto il podcast Chez Proust.  Per la collana digitale Quanti di Einaudi ha inoltre pubblicato il saggio breve Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza.

ilaria gaspari foto di pietro baroni

Ilaria Gaspari – foto di Pietro Baroni

Guanda a marzo 2024 ha pubblicato il suo secondo romanzo, La reputazione, in cui la scrittrice affronta temi stringenti della nostra contemporaneità, e lo fa in una prosa capace al tempo stesso di profondità e leggerezza. Con La reputazione Gaspari indaga sul rapporto tra apparenza e identità, sul peso della maldicenza e sulla difficile conquista ­della maturità. Cosa succede quando la diffidenza in­quina lo sguardo, quando i confini fra le colpe e i pettegolezzi si fanno labili, quando fidarsi significa rischiare? Barba­ra non è pronta a scoprirlo, forse non è pronta a diventare adulta, eppure non avrà scelta…

Scopri le nostre Newsletter

Iscrizione alla Newsletter
Il mondo della lettura a portata di mail

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

scegli la tua newsletter Scegli la tua newsletter gratuita

Libri consigliati

Abbiamo parlato di...