Patricia Highsmith (19 gennaio 1921 – 4 febbraio 1995) è talento purissimo, autentico genio. È, anche, una personalità titanica, tirannica. Una scrittrice “difficile”, “per cui non è affatto ovvio sentire d’istinto la simpatia che spesso ispirano autrici e autori altrettanto abili a decifrare i segreti della natura umana”. Ne parla in questa riflessione Ilaria Gaspari: “Highsmith mostra quanto tutti gli esseri umani, anche quelli più spregevoli, siano mossi da un desiderio comune: sopravvivere, essere amati… Accogliere la sua scandalosa lezione significa capire, una volta per tutte, che la letteratura non è fatta di messaggi, di modelli, di rassicurazioni…”
Patricia Highsmith è talento purissimo, autentico genio. È, anche, una personalità titanica, tirannica. Una scrittrice difficile, per cui non è affatto ovvio sentire d’istinto la simpatia che spesso ispirano autrici e autori altrettanto abili a decifrare i segreti della natura umana.
Per molti anni Patricia Highsmith è stata alcolizzata; è morta di tumore ai polmoni dopo aver fumato come una ciminiera tutta la vita. Ha coltivato opinioni impresentabili senza il minimo scrupolo: dopo una giovanile militanza nel Partito Comunista, ostentata con altera indifferenza al clima maccartista, nella maturità ha mescolato idee libertarie a convinzioni iper-reazionarie, esternazioni razziste, misogine, antisemite. Ha sempre ribadito l’importanza delle libertà individuali e dei diritti degli animali, mentre nelle interviste sosteneva – senza tanti eufemismi – di disprezzare il genere umano. Alle sue posizioni politiche, così estreme da apparire provocatorie, ha giustapposto inaspettati atti di generosità e solidarietà verso i discriminati e gli oppressi.
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Alla luce di queste contraddizioni si affaccia il sospetto di un’ambivalenza sottesa alla scelta di raccontarsi esponendo agli occhi del mondo lati di sé selezionati con cura – ma non certo in base al criterio del “profilo migliore”. Questi atteggiamenti, che ha assunto e mantenuto per buona parte della sua vita, furono, con ogni probabilità, delle pose, inquadrate in uno straordinario esperimento artistico. Con qualche tratto patologico.
Perché Patricia Highsmith ha vissuto senza mai smettere di cercare, con spaventosa energia, qualcosa di molto profondo. E questo qualcosa, io credo, coincide almeno in parte con il potere della letteratura, di cui ha scoperto precocemente l’esistenza: per genialità, perché aveva un talento fuori dal comune. E forse, anche perché vivere con un talento del genere si è rivelato così disagevole, che la via migliore per sopravvivere le è parsa quella di un tremendo auto-esilio in sé stessa.
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Il successo arrivò presto. Sconosciuti in treno, il suo romanzo d’esordio, ebbe inizialmente un’accoglienza tiepida negli Stati Uniti; ma, dopo la trasposizione cinematografica che ne trasse Hitchcock – oggi un classico della storia del cinema – le fruttò una valanga di diritti d’autore. Carol, pubblicato inizialmente col titolo Il prezzo del sale, fu un altro successo clamoroso. Lo pubblicò però sotto lo pseudonimo di Claire Morgan, per sfuggire all’etichetta di “autrice omosessuale” che temeva le sarebbe rimasta appiccicata: per questa ragione rinunciò a riconoscere un libro che pure era destinato a creare intorno a sé un vero e proprio culto, e a segnare uno spartiacque nella narrazione dell’amore lesbico. Una storia che con molta tenerezza racconta disperazione di doversi nascondere, ma anche la dolce euforia di venire allo scoperto, di prendere il coraggio a due mani per mostrarsi davvero.
A consacrarla per l’autrice inarrivabile che è, fu dunque a partire dal 1955 il ciclo di Tom Ripley. Cinque romanzi, e al centro lui, Ripley, l’impostore per eccellenza: un personaggio che vive in un cono d’ombra, rivelando di sé solo quello che gli serve a realizzare piani sempre più ambiziosi, più astrusi, più perversi.
La sua straordinaria carriera di falsificatore d’identità comincia con un piccolo equivoco. Un incidente di nessuna importanza: viene scambiato per quello che non è. Nella fattispecie, per l’amico di un compagno di studi che invece, ai tempi del college, Ripley si è limitato ad ammirare da lontano: tanto che lui, rivedendolo, nemmeno si ricorderà di averlo mai conosciuto. Tom però non fa né dice nulla per correggere l’impressione erronea che il padre del presunto amico ha avuto incontrandolo. Tanto poco basta perché la sua vita cambi, e da un’omissione trascurabile si scivoli in un tunnel di menzogne via via più elaborate, e sempre meno innocue. Fino a quando tutto precipita – o, almeno, così sembra.
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Perché quando qualcosa va storto, quando la verità è sul punto di emergere, Ripley non ci pensa due volte a eliminare chiunque cerchi di mettergli il bastone fra le ruote. E intanto lui continua a vivere le sue doppie, triple vite, a viaggiare, a inventarsi escamotage degni di una spia per proteggere una verità ormai indicibile, facendosi recapitare fermo posta assegni e lettere nell’attesa costante di un castigo che non arriva. Il primo libro del ciclo si chiude con un’immagine difficile da dimenticare: in ogni porto, in ogni stazione, in ogni luogo da cui si trova a transitare – perché viaggia sempre, la sua inquietudine è inesauribile Wanderlust, è un americano in Europa come certi personaggi di Henry James, con le colpe di un Raskolnikov impegnato nel Grand Tour – Ripley immagina di vedere la polizia ad attenderlo.
Ma la polizia non c’è. E se c’è, lui trova un modo per sgusciare via, e ripartire, e rispuntare ancora più lontano.
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Finirà addirittura per sposarsi con un’algida ereditiera francese, Heloïse Plisson – un matrimonio bianco, e a suo modo, se non felice, certo equilibrato. E per cominciare così una vita ritirata, in una bella villa solida che ha un nome da plazer provenzale, Belle Ombre. Con il vento che gonfia le tende, le stanze fresche d’estate e il caminetto per l’inverno, un giardino ben curato oltre le finestre, la raffinatezza tranquilla e un po’ appassita di una provincia assopita in una pace apparente, nel silenzio di ambizioni sommerse, dissapori fra vicini, misteri elegantemente dimessi e pettegolezzi insospettabili. Una provincia che somiglia a quella dei romanzi di Simenon, o dei film di Chabrol. Accogliente, sonnacchiosa, violenta sotto la superficie.
Ogni tanto, se è proprio necessario a proteggere il simulacro di vita tranquilla che si è costruito, Ripley si ritrova a far fuori qualcuno. Ma la sottigliezza di Highsmith, il suo senso per l’umanità e per il racconto, si rivelano in un’intuizione minuscola e fondamentale. Una penna meno raffinata avrebbe cercato di accattivarsi sul piano etico l’alleanza di chi legge, cementandola in un comune senso di superiorità rispetto allo spregevole Tom Ripley; avrebbe insistito sull’ipocrisia, sulla finzione della sua esistenza apparentemente perfetta; ne avrebbe fatto una banale copertura, un paravento per l’attività criminale. Patricia Highsmith è una scrittrice troppo intelligente per cedere a questa tentazione, per cercare scorciatoie morali che assolvano l’hypocrite lecteur, facendolo sentire nobilitato.
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E infatti le pagine dedicate alla raffinata, riposante vita quotidiana a Belle Ombre sono un balsamo perverso: perché noi sappiamo, come lo sa lei, come lo sa Ripley stesso, come forse intuisce anche Heloïse, senza osare approfondire, che quella vita Tom Ripley non la merita. Che è presa a credito, e dunque è in bilico; eppure è una vita a cui Ripley è davvero affezionato. Come davvero – a modo suo, certo – vuol bene a Heloïse. Paradossalmente, il suo genio delinquenziale, a partire dal momento in cui quella vita se l’è conquistata, è tutto al servizio di Belle Ombre, della sua precaria pace. Non viceversa. Come se Raskolnikov, dal secondo volume del ciclo di Ripley in poi, trascolorasse in Jean-Claude Romand, l’Avversario.
Ripley, sulla carta, è un personaggio diabolico – come l’Avversario, appunto, a cui Emmanuel Carrère conferisce un titolo satanico. Il mellifluo Tom compie senza il minimo ripensamento terrificanti imprese delittuose, non conosce rimorso. Vive però in costante tensione per il castigo che potrebbe colpirlo da un momento all’altro: vive l’inferno in terra mentre si nasconde, sprofonda nelle identità di altri per rendersi imprendibile anche a sé stesso. Eppure, per paradosso, c’è persino in lui, nel re degli impostori, qualcosa di vero. La maniera in cui mette i dischi sul giradischi; la minuzia con cui Highsmith descrive gesti trascurabili che, al momento di soppesare su una bilancia le azioni buone e quelle cattive, scomparirebbero in un battibaleno.
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Invece, nel mondo di Tom Ripley, sospesi nelle pagine, i gesti minuscoli rimangono, e si compongono in un mosaico di avventure in cui, nostro malgrado, parteggiamo per lui – proprio per lui, il mostro, il prodigio – in una partitura d’angoscia puntellata di sospensioni, di attese disattese, di silenzi, diventa poesia. Poeta dell’inquietudine, Graham Greene ha definito Patricia Highsmith. E davvero la sua è una poetica dell’apprensione.
Ci mostra un mondo rovesciato in cui siamo costretti a riconoscere quanto sia difficile mettere a tacere quegli aspetti di noi che ci atterriscono, che vorremmo domare, che consideriamo impresentabili – e che spesso mascheriamo, per automatismo, con l’ipocrisia. Ma Patricia Highsmith ha un merito che l’accomuna a certi filosofi radicali: senza scampo, mette a nudo le ipocrisie. Nasconde la verità nella finzione, finge dove ci si aspetta verità, costruisce un gioco provocatorio dilatato, fino alle estreme conseguenze, in un’immagine pubblica inafferrabile.
Tutto il contrario del saggio e ponderato lavorio di manutenzione reputazionale implicitamente richiesto agli artisti nell’epoca dei social. Se la reputazione è oggi una merce di cui l’algoritmo determina il valore, se il pubblico è la somma dei consumatori di quella specifica merce, chi fa arte si ritrova sotto lo scacco di un giudizio costantemente mercanteggiato, ed è del tutto umano che senta la tentazione di accontentare il proprio pubblico, grande o piccolo che sia, soddisfarne le aspettative, vezzeggiarlo per non perderne i favori. Ma il prezzo di questo corteggiamento, lo paga l’arte.
Patricia Highsmith può essere forse un antidoto a questa tentazione. Certo, però: farne un santino o un modello da seguire sarebbe una pazzia, sarebbe incoerente con l’eredità che ha lasciato. Al contrario, accogliere la sua scandalosa lezione significa, precisamente, capire una volta per tutte che la letteratura non è fatta di messaggi, di modelli, di rassicurazioni.
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Highsmith mostra quanto tutti gli esseri umani, anche quelli più spregevoli, anche il riprovevole impostore Ripley, siano mossi da un desiderio comune: sopravvivere, essere amati. Siamo disposti, pur di dimenticarcelo, a grandi sforzi; a escludere il mostro dal nostro campo visivo, a disumanizzarlo, a dargli della bestia feroce, come se gli animali fossero moralmente deteriori rispetto a noi umani, come se assimilare il mostro a un animale ci potesse proteggere dal suo perverso potere. Un’idea che Highsmith respinge anche per il suo grande amore per gli animali, e per la sua diffidenza rispetto al ruolo egemone dell’umanità. La sua opera dimostra che non c’è niente che ci sia davvero alieno, in tutto il mondo naturale, che ignoriamo, e di cui a torto ci riteniamo padroni. Che sa essere spietato, feroce, tremendo, come noi; e come noi risponde a un impulso di sopravvivenza che attraversa un famelico bisogno di riconoscimento, e di amore.
Patricia Highsmith scrive di questo bisogno per tutta la sua vita, e quello che è più straordinario, e in un certo senso spaventoso, è che continua a farlo anche oltre i limiti della sua vita. Nelle 8000 pagine dei suoi taccuini (una selezione di circa 1000 è pubblicata in italiano nella bellissima traduzione di Viola Di Grado da La nave di Teseo), furiosamente riempiti di parole fin dall’adolescenza, si è creata un autoritratto perverso giocando con l’interpretazione futura dei suoi testi, inventando e distorcendo i fatti, come ha dimostrato con un lavoro minuzioso sui quaderni e sulla corrispondenza Richard Bradford, che ha scritto la biografia Devils, Lusts and Strange Desires. Come Ripley, in questi testi destinati al lascito postumo, Highsmith si è nascosta per rivelarsi a sprazzi.
Uno dei suoi racconti più precoci, Crime Begins, è stato scritto all’epoca in cui frequentava il college, il Barnard – sezione femminile della Columbia University. Nei ricordi delle compagne di scuola, Highsmith, all’alba degli anni ‘40, in un periodo in cui la moda insiste sulla soavità più naïve delle ragazze, si presenta vestita come il personaggio di un romanzo noir. Guanti, cappello calato sugli occhi, sigaretta all’angolo della bocca che non cade mai, neanche quando parla. E questo senso dello stile modella tutta la sua persona.
Crime begins è la storia di una ragazza che riesce ad aggiudicarsi il libro che tutti vogliono: un libro che serve a preparare un esame importante, di cui in biblioteca, però, c’è una copia sola. Per accaparrarselo lo nasconde dentro un suo diario segreto: ritaglia nelle pagine del diario una sezione, una nicchia in cui infilarlo.
Ecco cosa ha realizzato Patricia Highsmith con la sua vita: il libro che tutti vorrebbero, quello che permette di attingere a verità a cui nessuno riesce ad arrivare, l’ha infilato nel suo diario, ritagliando uno spazio sufficiente a espandere quel cuore nero dell’immaginazione.
IL PROGETTO SCRITTRICI DIFFICILI – Quello proposto sopra è il testo revisionato di una conferenza tenuta dalla scrittrice Ilaria Gaspari per il ciclo Scrittrici difficili – I romanzi del cambiamento, dedicato a Patricia Highsmith. Il progetto è nato “per dare nuova voce e nuovo spazio ad autrici italiane e straniere che, con le loro opere, la loro poetica, le loro scelte di vita, sono risultate difficili da comprendere, accettare, pubblicare nel loro contesto storico e sociale. Autrici che hanno combattuto per realizzare dei cambiamenti positivi nelle regole sociali, famigliari, sentimentali”.
Il nome del progetto contiene due citazioni. Prende spunto dal saggio femminista Donne difficili di Helen Lewis (pubblicato in Italia da Blackie Edizioni), che ripercorre in 11 tappe la storia del femminismo e rielabora in modo positivo “il diritto a essere donne difficili”, quelle che non si accontentano dello status quo, inquiete, e con l’attitudine alla creazione di cose nuove. Poi c’è il riferimento alla preziosa opera antologica di Angela Scarparo, I romanzi del cambiamento – Scrittrici dal 1950 al 1980, pubblicato da Avagliano nel 2014, in cui sono raccolti e analizzati alcuni brani di autrici italiane oggi dimenticate, in parte ripubblicate, che hanno lasciato un segno nella letteratura sul fronte dei temi affrontati e dello stile. Il progetto è ideato e curato da Valeria Cecilia, editor freelance, collaboratrice del Foglio, fondatrice di Chiticredidiessere.com, studio editoriale e di promozione di eventi culturali. Il format ha esordito a Più Libri Più Liberi 2022, ed è presente ogni anno all’Umbria Green Festival nel programma letterario Risorgive, a Rasiglia. Nel 2024 ha inoltre fatto tappa anche al Circolo dei Lettori di Torino, mentre a marzo 2025 si è svolto al Circolo dei Lettori di Novara.
L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Dal 2015 collaboratrice di ilLibraio.it, scrive per diverse testate e collabora con radio, tv e scuole di scrittura.
Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni. Nel 2022 per Giulio Perrone editore è uscito A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Con Emons, (e con il sostegno dell’Institut Français Italia), sempre nel 2022, ha curato e condotto il podcast Chez Proust. Per la collana digitale Quanti di Einaudi ha inoltre pubblicato il saggio breve Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza.
Guanda a marzo 2024 ha pubblicato il suo secondo romanzo, La reputazione, in cui la scrittrice affronta temi stringenti della nostra contemporaneità. Da poco è tornata in libreria con il racconto lungo L’hotel del tempo perso – Non rubare, un giallo a tinte filosofiche che omaggia Agatha Christie e le sue atmosfere, uscito in una nuova collana Rizzoli ispirata ai dieci comandamenti.
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